Lezione
didattica 20 Marzo
Il disturbo di
lettura, ovvero la dislessia.
Negli ultimi
anni nelle scuole è subentrato un vocabolo che pian piano si è diffuso sempre
di più: l’inclusione,
che è molto di più di un semplice paradigma concettuale. Sono state infatti
emanate una serie di leggi, un quadro molto delineato, e abbiamo anche molte
responsabilità che vengono affidate all’insegnante curricolare.
Negli ultimi
anni si è assistito ad un passaggio dal concetto di integrazione al concetto di
inclusione.
Mentre l’integrazione si riferiva
solamente ai soggetti disabili, a situazioni in cui era presente una disabilità
o un handicap, l’inclusione
fa riferimento a tutta quanta la popolazione scolastica.
L’integrazione,
dal suo punto di vista, valutava il livello di integrazione di un’istituzione,
di una società, di una tecnologia solamente attraverso il “gap “ esistente fra le opportunità di
azione offerte ad un soggetto normale e le opportunità di azione offerte ad un
soggetto portatore di handicap.
Questo vuol dire
praticamente, da un punto di vista
dell’architettura, che, se un'aula si fosse
trovata al terzo piano un soggetto normale l’avrebbe raggiunta normalmente, un
soggetto Paraplegico in mancanza di una rampa non avrebbe potuto raggiungere
l'aula. Parlo quindi di opportunità e quindi il soggetto disabile non aveva l’opportunità di salire
in aula.
Questo significa che un soggetto con
disabilità era escluso da una serie di opportunità di integrazione che invece
venivano offerte ad un soggetto normale.
In questo senso si determinava un gap tra
la normalità e la disabilità. La dimensione di questo gap era offerta proprio
dal numero di opportunità che aveva un soggetto normale in relazione ad un
soggetto disabile. Questo ovviamente si può verificare in ogni contesto, per
esempio anche nelle tecnologie, un soggetto ipovedente o non vedente se va su
un sito dove non vi è una sintesi vocale questo soggetto non potrà fruire delle
informazioni presenti sul sito, avrà quindi un basso grado di integrazione
.
Con il tempo il concetto di integrazione è
saltato completamente, nel senso che si è posto in luce come il concetto di
“normalità” stesso non fosse definito; Effettivamente nessuno può dire che cosa
sia normale e cosa non sia normale, ognuno, in quest’aula ha il suo stile
cognitivo, il suo modo di ragionare, la sua storia, ha una serie di elementi
che lo caratterizzano e agisce in relazione a questi elementi e il concetto di
normalità diventa qualcosa di abbastanza sfumato, che può essere applicato nel
caso della rampa, ma che diventa problematico appena ci si allontana dal
livello fisico.
È subentrato in questo senso il concetto
di “Inclusione”.
Questo concetto di inclusione è più vicino
al nostro sistema di istruzione e formazione, il quale si propone di erogare,
per tutti quanti gli studenti un percorso educativo, didattico e formativo
individualizzato e personalizzato, nel rispetto quindi dell’individuo e della
persona, cioè un percorso didattico che sia individuale, quindi che permetta ai singoli individui di operare
nel mondo , per essere futuri cittadini di domani, quindi avere delle
competenze necessarie per operare all’interno della società del domani e
personalizzato nel senso di “sposare” , per cosi dire, i punti di forza del
singolo individuo. In questo senso l’inclusione si propone di valorizzare i
punti di forza di ogni singolo individuo e le sue potenzialità e tentare di
ovviare quanto più possibile ai suoi punti di debolezza. In questo senso non
solo scompare il concetto di normalità, ma l’inclusione diventa un qualcosa che
non riguarda più solamente un soggetto con disabilità, ma riguarda qualsiasi
individuo, perché tanto bisogna valorizzare i punti di forza di un soggetto per
così dire a sviluppo tipico, tanto quelli di un soggetto con ritardo nello
sviluppo, tanto con soggetti con disabilità o disturbi, o con soggetti
particolarmente bravi che vanno aiutati ad esprimere appieno tutte quante le loro potenzialità.
Sulla base di questo mutamento c’è stata
una sorta di rivoluzione di carattere normativo in ambito scolastico.
I primi effetti sono stati la
determinazione, lo spostamento per cosi dire di quelli che oggi cadono sotto il
nome di “disturbi specifici dell’apprendimento”, dagli
insegnanti di sostegno all’insegnante curriculare. È l’insegnante curriculare
che si prende in carico questi ragazzi con disturbi.
Mentre
le disabilità psico-fisiche o portatori di disabilità rimangono a carico
dell’insegnante di sostegno, una figura a sostegno di tutta quanta la classe, ma che si trova
in classe per un determinato periodo di tempo per favorire, individualizzare e
personalizzare la didattica a favore del soggetto portatore di handicap o
disabilità.
La
presa in carico dei soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento da parte
dell’insegnante curriculare è stata determinata dalla legge 170 dell’8 Ottobre
2010, a cui sono seguite
diverse direttive ministeriali che hanno esteso questo concetto e hanno esteso le misure
dispensative che l’insegnante curriculare può adoperare in presenza di soggetti
con disturbi specifici dell’apprendimento a situazione di carattere anche non
clinico, ovvero a situazione di svantaggio socio-economico o culturale.
Questo significa che tutti i soggetti con italiano L2 o i soggetti di lingua
straniera o tutti i soggetti con svantaggio sociale, tutti i soggetti con altri
tipi di svantaggio, esempio anche un soggetto che ha una singola difficoltà in
termini di apprendimento causato da una situazione temporale che può essere il
divorzio dei genitori o una depressione indotta da una qualsiasi altra cosa di
cui non si ha nessun tipo di certificazione medica, cosa che invece avviene sia
per i PSA, sia per soggetti portatori di disabilità.
In linea generale queste tre categorie a
cui ho fatto accenno adesso sono state inserite all’interno di una macro
teoria, ovvero quella dei bisogni educativi speciali, BES, la quale è forse la
più diretta emanazione del passaggio al paradigma dell’inclusione da parte del
nostro sistema di formazione e di istruzione. Questa macro-categoria (BES)
comprende al suo interno le tre sottocategorie (quella sei soggetti portatori
di disabilità o minorati psicofisici, disturbi legati all’apprendimento DSA e l’area dello svantaggio socio economico
e culturale) per cui è necessario avere
una piena cognizione in relazione alla struttura.
Il
tentativo è quello di innestare una didattica o un sistema di istruzione non
generale, ma basati sul tentativo di favorire le potenzialità di ogni singolo
individuo. In questi termini l’inclusione riguarda
qualsiasi individuo, sia soggetti con disabilità, sia con disturbi, che
soggetti particolarmente bravi in quanto è indipendente dalla singola
patologia. In tutti questi
casi il sistema di istruzione e
formazione garantisce un’educazione individualizzata e personalizzata che deve
favorire lo sviluppo delle potenzialità dell’individuo, quindi che sia tarata
sul tentativo di fornire sulla base delle potenzialità del soggetto la
trasmissione e l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze che
permettano all’individuo di operare in autonomia all’interno della società e
che valorizzino i punti di forza del singolo. In questi termini l’inclusione
riguarda chiunque e non riguarda più
soltanto la disabilità. C’è stata una sorta di evoluzione dell’integrazione che
ha portato a questa nuova visione che è onnicomprensiva che riguarda tanto
l’insegnante di sostegno tanto l’insegnante
curriculare tanto il dirigente scolastico o la scuola come organismo
complesso.
È necessario adesso suddividere i tre
casi:
1 Caso di minorazione psicofisica. La presa in carico avviene da parte
dell’insegnante di sostegno che è una figura specializzata che è a sostegno della classe, attraverso la legge
104 viene attribuito al soggetto
portatore di handicap una diagnosi e viene conferito l’insegnante di sostegno. Quest’ultimo è presente solo in
determinate ore e potrebbe non essere presente per tutte le 18 ore. Per le
restanti ore il soggetto disabile rimane a carico dell’insegnante curriculare.
Gli strumenti attraverso cui opera l’insegnante di sostegno sono l’analisi o
diagnosi funzionale DF, che viene data
dall’asl, il profilo dinamico funzionale( profilo dell’alunno, punti di forza e
debolezza) PDF, che è redatto insieme ad
una equipe medica multidisciplinare dell’asl, infine l’insegnante e il gruppo
di lavoro per l’handicap operativo(GLHO) per il soggetto disabile (famiglia,
insegnante ecc), viene esteso il PEI, piano educativo individualizzato, che determina gli obiettivi di apprendimento
che il soggetto deve perseguire e la didattica che gli permetta, in base alle
sue condizioni, di perseguire tali obiettivi e gli strumenti da utilizzare.
2 disturbi specifici
dell’apprendimento: se
ne prende carico l’insegnante curriculare, della classe, il quale per far fronte a tale situazione può adoperare un
Piano didattico personalizzato.
Questo piano è una sorta di strumento simile, ma che presenta delle differenze
sostanziali con il PEI. Il piano didattico personalizzato, dato che ci si
riferisce a dei disturbi molto definiti, e che lasciano intatto il
funzionamento intellettivo generale, è semplicemente una progettazione di una
didattica personalizzata per andare
incontro alle esigenze di ogni singolo studente con DSA. Questo significa dire
che sono previsti strumenti compensativi o dispensativi, ad esempio un soggetto
con DSA può fare richiesta del 30% in più per le prove scritte, anche per gli
esami di stato, così come anche nei
concorsi pubblici, perché ne ha diritto per legge, oppure strumenti
compensativi quali le dispense ecc, per compensare appunto il suo deficit.
La differenza sostanziale fra il PEI e il
PDP è che nel PEI l’insegnante può modificare gli obiettivi di apprendimento
minimi, nel PDP questo non si può fare,. L’insegnante curriculare ha a
disposizione soltanto la certificazione
medica della presenza del disturbo e sulla base di quella certificazione
medica e la sua conoscenza del soggetto stende una programmazione didattica
personalizzata, ovvero un iter didattico specifico per quel soggetto che sia in
grado di ovviare alle difficoltà del soggetto e di arrivare esattamente agli
stessi obiettivi di apprendimento di tutta quanta la classe. Si prevede solo un
iter didattico differenziato in base a quella situazione.
3 Svantaggio
socio-economico-culturale: è stato
previsto anche in questo caso che
l’insegnante curriculare, senza alcuna certificazione medica, può mettere in atto un PDP, in modo che il
soggetto possa superare le sue difficoltà transitorie e raggiungere gli stessi obiettivi di
apprendimento della classe. Esempi Sono soggetti stranieri, soggetti in una
situazione di svantaggio e soggetti di altra difficoltà. La legge dice che il
“collegio dei docenti”, che è un organo d’Istituto, è sovrano nell’attribuzione del PDP. Attraverso questo piano l’insegnante
ha uno strumento abbastanza utile che gli consente di mettere in atto strategie
di compensazione e misure dispensative che altrimenti non può mettere in atto
in maniera ufficiale. Anche in questo caso il PDP deve essere accettato dalla
famiglia, che se non firma vi può essere un contenzioso legale nei confronti
della scuola.
Se la famiglia porta una certificazione
medica e l’insegnante non lo prende in carico può essere denunciato, come anche
l’istituto scolastico perché non è stata applicata la legge (del 2010).
Esistono anche organi diversi che si
trovano all’interno della scuola, come sono i GLHO,.
SONO STATE FATTE POI UNA SERIE DI DOMANDE
ALLE QUALI IL DOCENTE DA DELLE
CHIARIFICAZIONI, MA SONO DELLE SEMPLICI RIPETIZIONI DI QUELLO CHE HA DETTO FINO
AD ORA E QUINDI NON LE HO TRASCRITTE.
Andiamo a veder ora la differenza tra
queste due situazioni a cui stiamo facendo riferimento, ovvero la categoria dei
disturbi e quella degli svantaggi. Queste due categorie corrispondono ad
altrettante due situazioni che potete trovare in classe, cioè una situazione di
difficoltà ed una situazione di disturbo. Questi due termini hanno peculiarità
differenti. La difficoltà è transitoria, cioè si riferisce ad un periodo
delimitato di tempo, che può essere superato attraverso l’intervento didattico,
ed è acquisita, nel senso che non è congenita, innata, e non è resistente
all’automazione, significa che si può ovviare a tale situazione semplicemente
con l’intervento didattico.
I disturbi, invece, fanno riferimento ad
una situazione congenita, quindi presenti fin dalla nascita, insuperabile,
quindi che non può essere completamente superata e che è resistente
all’intervento di carattere didattico, resistente quindi all’automazione. Per
cui l’intervento didattico deve essere accompagnato da un adeguato intervento
terapeutico, altrimenti non si ottengono adeguati miglioramenti da parte del
soggetto.
In particolare esaminando la locuzione
“Disturbi specifici dell’apprendimento” possiamo dire che sono una particolare
tipologia di disturbi, quindi entità cliniche, che vanno ad intaccare un
dominio altrettanto specifico, che è quello dell’apprendimento; cioè fanno
riferimento ad attività e competenze che devono essere apprese in un modo o in
un altro. Si sa che ogni individuo ha della abilità naturali, parlare,
camminare o altre abilità che fanno parte del naturale sviluppo dell’individuo,
mentre invece i disturbi specifici dell’apprendimento si riferiscono ad abilità
scolastiche che necessitano di essere apprese, ovvero lettura, scrittura e
calcolo. Queste tre abilità, se non vengono apprese, non vengono sviluppate in
modo adeguato da parte dell’individuo.
Quindi ricapitolando questi disturbi fanno
riferimento sia a disturbi di situazioni innate, resistenti all’automazione,
che vanno ad intaccare il dominio dell’apprendimento, e quindi l’apprendimento
di specifiche competenze scolastiche come lettura, scrittura e calcolo, le
quali non si maturano se non in presenza di un adeguato intervento didattico,
possono essere apprese sia da autodidatta, sia con l’insegnamento. In un modo o
in un altro devono essere apprese perché non fanno parte del naturale sviluppo.
I DSA sulla base della legge 170
comprendono Dislessia, ovvero disturbo della lettura, dal greco Dius- Lessia
(non lettura), la dis- grafia, Dius-grafia, ovvero la produzione di grafia
illeggibile, la dis-ortografia, la non corretta scrittura, che si manifesta in
una produzione sgrammaticata per cosi dire, una scrittura non corretta, e la
dis-calcolia, ovvero dius- calcolia, non calcolo, quindi un disturbo delle
competenze del calcolo del singolo individuo. Questi quattro disturbi fanno
riferimento alle tre abilità: lettura, scrittura e calcolo, che rappresentano
uno degli obiettivi minimi e primari del nostro sistema di istruzione.
Dislessia, disturbo nella lettura e le
relative metodologie attualmente diffuse.
Questi disturbi sono
insuperabili e congeniti, quindi presenti fin dalla nascita e fanno riferimento
a 4 disturbi specifici che intaccano abilità scolastiche di lettura, scrittura
e calcolo, e queste abilità sono competenze che necessitano di essere acquisite
e non fanno parte del naturale sviluppo della persona.
I criteri per
l’individuazione di un DSA, perché un soggetto sia diagnosticato come DSA,
devono essere presenti 4 requisiti:
1. un
QI nella norma o al di sopra della norma, quindi dalla media in su. In caso di
soggetto con QI al di sotto della norma si tratta di situazioni cognitive
borderline o di ritardo mentale, quindi una eventuale difficoltà in quelle
competenze è attribuibile al fatto di avere un QI al di sotto della norma.
Questi disturbi intaccano specifiche competenze di lettura, scrittura e
calcolo, ma lasciano integre le competenze cognitive generali, come sostenuto
dallo stesso Giacomo Stella, ex presidente dell’associazione italiana
dislessia;
2. non
presentano danni neurali che possano da soli spiegare le difficoltà presentate,
quindi non devono essere presenti danni o lesioni di carattere cerebrale;
3. abbiano
ricevuto adeguate opportunità scolastiche e culturali, per l’acquisizione delle
competenze scolastiche;
4. il
disturbo deve essere permanente per almeno 6 mesi prima che si possa fare
diagnosi.
Se sono presenti questi 4
requisiti, e il soggetto mostra delle difficoltà specifiche in queste tre
competenze, lettura, scrittura e calcolo, allora è possibile che sia presente
un DSA.
Tutto ciò impatta in
modo particolare sulla didattica.
Nei materiali
aggiuntivi (dati dal prof) c’è un articolo che paragona il metodo globale al
metodo alfabetico ai metodi analitici in generale per l’avvio alle competenze
di lettura nella scuola primaria.
Il metodo globale è una
metodologia didattica che è stata per lungo tempo sostenuto dall’associazione
internazionale per la lettura, ancora diffuso nelle nostre scuole, anche se la
letteratura scientifica e le ricerche hanno dimostrato che quel metodo si basa
su affermazioni false e produce effetti problematici in presenza di soggetti
DSA o con soggetti con ritardi nello sviluppo. In particolare l’assunto di
questo metodo è che la lettura non sia altro che l’estensione dell’eloquio,
quindi delle competenze linguistiche del soggetto, e che l’insegnante della
scuola primaria debba innestare la sua didattica sulle competenze pregresse
dell’eloquio e delle competenze fonologiche pregresse del soggetto al fine di
garantirne l’acquisizione della lettura, quasi come se la lettura fosse
un’estensione delle nostre capacità linguistiche. Per fare questo il metodo
globale sconsiglia di spezzettare in unità minime ed astratte il linguaggio
naturale, come possono essere alfabeto, fonemi che sono le unità minime della
lingua orale e i grafemi che sono le unità minime della lingua scritta, perché
così si perderebbe di vista quello che è il senso naturale del linguaggio
scritto, cioè le potenzialità in termini di comunicazione. E, in questo senso,
si determinano delle difficoltà nell’acquisizione delle competenze di lettura,
perché questa non viene vista più come una competenza naturale ma artificiosa,
che si tende ad insegnare e non rappresenta un’estensione delle competenze
naturali del soggetto.
In questo senso, quello
che suggerisce il metodo globale (suggerimenti spesso ancora validi), è, per
esempio, di inserire il soggetto in un ambiente ricco di scritte, per stimolare
la sua curiosità: assunto principale di questo metodo, infatti, è che un
individuo impara a parlare perché immerso in un ambiente di persone che
parlano, quindi esposto al linguaggio orale. Similmente bisognerebbe riempire
l’ambiente di linguaggio scritto, partire dalle competenze del soggetto e fare
in modo che il bambino acquisisca la lettura in modo naturale attraverso prove
ed errori, così come fa con le competenze verbali e fonologiche. In questo
senso il focus dell’attenzione è sulle competenze pregresse del soggetto e
sulle frasi nel loro insieme, e su una metodologia di acquisizione delle
competenze di lettura basate su prove ed errori. Si chiede al soggetto di
tirare ad indovinare le parole. Gli step sono vari, ad esempio, nel primo anno
della scuola primaria, l’insegnante legge coi bambini una storia, chiede poi a
i bambini di disegnare una figura, dopodiché dice i nomi delle figure che sono
state disegnate e chiede ai bambini di scrivere, apparentemente senza nessuna
forma di istruzione o avviamento a lettura e scrittura, le parole che
caratterizzano la figura disegnata. Dopo legge quello che è stato scritto dai
bambini e fa notare se sono stati commessi o meno degli errori, sottolineando
come gli errori siano ben accetti, come a dare valore al detto che sbagliare è
umano.
In realtà, come abbiamo
avuto modo di vedere, la lettura non può essere considerata una abilità
naturale.
In un approccio del
genere si tende a favorire una naturalezza che in realtà non esiste.
La competenza di
lettura, infatti è una competenza molto complessa, che fa ricorso a numerose
abilità cognitive cui l’individuo fa ricorso per mettere in pratica per
sviluppare ed acquisire questa competenza. Un avviamento del genere, senza
palesare il legame alfabetico tra i grafemi e i fonemi corrispondenti, corre il
rischio di nuocere ai soggetti. In realtà questo legame viene stabilità in autonomia
dal 70% dei bambini che arrivano alla prima classe. Ma quando si ci trova di fronte ad un DSA o
ad una situazione di normale disagio dello sviluppo, ovvero una variazione, in
termini di tempo dell’acquisizione delle competenze scritte e delle competenze
scolastiche, una situazione di assoluta normalità, perché ognuno ha dei tempi
di funzionamento differenti. Quando ci sono situazioni di questo tipo è
possibile che il legame grafema fonema, o la struttura alfabetica delle parole
o che le competenze fonetiche del soggetto non siano adeguatamente sviluppate.
In questo caso, utilizzando il metodo globale, si corre il rischio di arrecare
dei danni in termini di acquisizione di competenza di lettura ai bambini, nel
senso che i danni fatti si mostrano dopo e sono permanenti. Siccome quello che
viene richiesto di fare è una didattica inclusiva, cioè una didattica che sia
capace di sviluppare le potenzialità di ogni singolo individuo, la metodologia
da mettere in atto è una metodologia che non nuoce a nessuno.
Il metodo analitico, o
quello alfabetico, o tutti quelli sublessicali, si basano sul tentativo di
rendere esplicito il legame alfabetico tra grafemi e fonemi e sul tentativo di
rafforzare le competenze di segmentazione fonetica e sillabica degli studenti durante
il loro periodo di avvio a scrittura e lettura; ciò significa dire di lavorare
molto sulla struttura interna di una parola sia scritta che orale, in termini
di segmentazione dei suoni e dei fonemi che compongono la parola, in modo da
rendere questi legami efficienti e di veicolare il soggetto alla comprensione
delle informazioni metalinguistiche che caratterizzano il linguaggio italiano.
Cioè il fatto che sia il linguaggio scritto che orale è caratterizzato da
elementi minimi, i grafemi e i fonemi, che si mescolano insieme in sequenze
specifiche per costituire tutte le parole possibili del vocabolario e in
seguito per costituire frasi o espressioni o testi via via più complessi, ma
sono sempre gli stessi elementi che vengono rimescolati; sono i mattoncini
fondamentali del linguaggio scritto o orale.
Il metodo alfabetico,
benchè più lento, raggiunge gli stessi risultati del metodo globale, ma
toccando tutti.
Tutto ciò è spiegato
più dettagliatamente nei materiali aggiuntivi consigliati.
DEFINIZIONE DEL
DISTURBO DI LETTURA: DISLESSIA
La definizione non solo
fa da ponte per l’introduzione di alcune metodologie didattiche e tecnologie
specifiche, ma anche perché ci dà informazioni importanti in relazione alle
attività cognitive coinvolte nel processo di lettura, e quindi su come ad
andare ad agire su di esse al fine di ottenere dei risultati in termini di
lettura a seconda delle diverse situazioni che ci troviamo di fronte.
La definizione data
dalla legge 170 è: disturbo specifico che si manifesta in una difficoltà
nell’imparare a leggere, in particolare nella decifrazione dei segni
linguistici ovvero nella correttezza e nella rapidità di lettura.
La lettura può essere
suddivisa in due dimensioni: della comprensione, della fluenza di lettura o
capacità di codifica. E la lettura strumentale può essere valutata secondo due
parametri: rapidità e accuratezza, che è esattamente quello a cui si riferisce
la legge, che ci dice come la dislessia è definita come una difficoltà del
soggetto, rispetto ai suoi pari, nella fluenza di lettura, ovvero in rapidità
ed accuratezza.
È un disturbo che va ad
intaccare, in primis, la lettura di carattere strumentale, la capacità di
decifrazione dei segni linguistici e il loro matching coi fonemi
corrispondenti. In particolare la legge 170 dispone che le istituzioni
scolastiche si avvalorino di una didattica personalizzate che tenga conto del
benessere del soggetto e favorisce, per quanto possibile, lo sviluppo della
capacità di lettura. La letteratura scientifica, al contrario, dice che bisogna
diminuire le consegne scritte e diminuire e dispensare dalle attività di
lettura. La domanda è: come intervenire viste le indicazioni discordanti? La
letteratura scientifica suggerisce di utilizzare due metodologie didattiche:
una inclusiva, per tutta la classe, come i metodi alfabetici, o analitici o
sublessicali, e forme e metodologie di didattica indirette, che ottengono dei
miglioramenti dell’attività di lettura, senza prevedere lettura. L’idea di base
è quella di influire sullo sviluppo delle competenze cognitive coinvolte, per
avere, a cascata miglioramento delle competenze di lettura. Per esempio se un
soggetto con dislessia ha difficoltà fonologiche al posto di farlo leggere
faccio esercizi orali con tutta la classe, come previsti nel metodo alfabetico,
relativi alla segmentazione in fonemi delle parole e delle frasi, dopodiché un
migliore sviluppo della competenza fonologica porta, in modo indiretto, a
cascata ad un miglioramento in termini di lettura. In questo senso posso fare
una didattica di potenziamento volta ad ottenere risultati indiretti in termini
di lettura. Cioè favorisco lo sviluppo delle aree cognitive che sono intaccate
o dei punti di forza del soggetto affinchè questo possa riversarsi nel
miglioramento della competenza di lettura strumentale.
la dislessia è un
disturbo della lettura strumentale, ovvero una carenza di fluenza di lettura,
quindi da una rapidità sotto la norma e da un’accuratezza sotto la norma,
significativamente differente dai suoi pari.
Disturbo
dell’automazione del meccanismo di matching tra grafema e fonema, che permette
di riconoscere una lettera ad un suono. La letteratura indica, come la
dislessia sia un disturbo che incide sia sul riconoscimento delle lettere sia
nella loro conversione nel fonema corrispondente. In questo senso, intaccando
questa via di sviluppo, a cascata, tutta l’evoluzione della competenza di
lettura. Per questo è necessario intervenire su questo tipo di disturbo
soprattutto nella scuola primaria, per ovviare alcuni sintomi.
Facciamo ulteriore
chiarezza perché è stato detto che questo disturbo è insuperabile, innato,
intacca il meccanismo di conversione grafema fonema rendendo più difficile lo
sviluppo della via diretta; in realtà esiste un periodo di tempo nel quale
l’intervento didattico può essere così efficace da ricondurre la performance
del soggetto in termini di rapidità e accuratezza, all’interno di una
prestazione normale. Questo periodo, chiamato la finestra evolutiva, che caratterizza
tutti i DSA, in termini di finestra temporale diversa, e va dalla fine del II
anno della scuola primaria, cioè periodo in cui viene emessa la diagnosi,
perché prima non può essere emessa, fino al termine del III anno della scuola
secondaria di primo grado (III media). In questo periodo di tempo è possibile
agire, dal punto di vista didattico e terapeutico, in modo tale da ricondurre i
sintomi relativi ad una mancanza di lettura fluente del soggetto, quindi di
rapidità e accuratezza, all’interno della norma. Da questo susseguono due
affermazioni di base:
- il
ruolo dei docenti in relazione ai disturbi cambia a seconda del grado
scolastico in cui si va ad operare. Perché mentre l’insegnante della scuola
secondaria di secondo grado avrà una didattica che si focalizzerà
principalmente sul garantire l’accesso all’informazione da parte del soggetto,
quindi nel trovare delle vie alternative di comunicazione. La cosa cambia nella
scuola dell’infanzia, perché non posso essere certo che esistano tali problemi,
quello che si può fare è individuare situazioni potenziali di rischio e agire
suggerendo la logopedia, o anche la psicomotricità e tentare di attenuare gli
eventuali sintomi di futuri disturbi, con la piena coscienza che se è
dislessia, dislessia sarà. Il docente della scuola primaria o della scuola
secondaria di primo grado, avrà il ruolo non solo di garantire l’accesso
all’informazione, ma di avviare, per quanto possibile, lo sviluppo della
competenza di lettura, perché in questo periodo di tempo l’intervento didattico
è particolarmente efficace, in base alla finestra evolutiva. È stato testato
che l’intervento didattico e terapeutico nelle scuole superiori, ottiene
un’efficacia molto minore rispetto a quello che si può portare avanti alle
scuole elementari e medie.
- Periodo di emissione della diagnosi è al termine della II elementare e non
relativa all’età biologica come, per esempio, nel caso dell’autismo. Il
riferimento alla classe è perché la lettura va acquisita, appresa e,
mediamente, al termine della II elementare tale competenza è abbastanza
sviluppata da poter essere valutata. Ed è per questo che, seppure il disturbo
sia presente fin dalla nascita, valutarne la presenza prima di questo periodo
diventa complesso. Esistono anche dei segni premonitori, degli indici della
presenza del disturbo, che sono difficoltà nella seriazione, cioè difficoltà
nell’acquisire e memorizzare serie di numeri e concetti come mesi dell’anno o
giorni della settimana; goffaggine e disturbi del movimento, gestione dello spazio
in generale, come difficoltà nell’allacciarsi le scarpe, difficoltà nel gestire
il materiale di studio per prepararsi la cartella, difficoltà nello gestire gli
spazi personali, etc. ma, finchè non si raggiunge questa specifica classe
scolastica, la diagnosi non può essere emessa, perché solo in questo momento
quella competenza può essere valutabile e sulla base della valutazione
verificare se quella competenza ha un livello di sviluppo normale o al di sotto
della norma, o patologico o anche al di sopra della norma.
Un altro motivo
per cui non è possibile effettuare diagnosi prima della fine della II
elementare è anche perché potrebbe trattarsi, fino a questo momento, di
naturali ritardi dello sviluppo, ovvero il soggetto potrebbe trovarsi nella
condizione di avere necessità di un tempo più prolungato per l’acquisizione di
alcune abilità e competenze, periodo di tempo superato il quale il soggetto non
ha alcun disturbo, è un normo-lettore, ma aveva necessità di tempi differenti
rispetto alla media della popolazione scolastica.
Un altro ruolo
importante dell’insegnante della scuola primaria, oltre che quello di favorire
lo sviluppo della competenza di lettura, come presente anche all’interno delle
finalità della legge 170, è quello di individuare anche situazioni
“potenzialmente a rischio di”, il che significa che si dovrebbe, sulla base di
test da somministrare all’inizio e alla fine dell’anno scolastico, come
ingresso e uscita dell’anno scolastico, o sulla base della propria esperienza
personale, individuare una situazione potenzialmente a rischio di lettura,
suggerire alla famiglia una visita all’ASL, e vedere se questa rimanda indietro
una diagnosi di dislessia. Ai docenti della scuola primaria, quindi è affidata
una grande responsabilità che va dal monitoraggio e screening, fino
all’intervento didattico adeguato da predisporre per il bambino.
L’importanza
dell’individuazione precoce è assoluta in questi contesti perché, a causa della
finestra evolutiva, ritardare la diagnosi, e quindi la predisposizione
dell’intervento terapeutico e didattico appositamente tarato, anche solo di due
anni, quindi individuare il soggetto in V elementare, piuttosto che al termine
della II, fa perdere al soggetto 2 anni di potenziale sviluppo che non può
essere riacquisito nel corso della scuola media.
Un altro elemento di
base della dislessia è che il disturbo intacca la competenza del soggetto in
termini di fluenza di lettura, ma non intacca la comprensione della lettura,
almeno come deficit primario. Nel senso che, spesso, il disturbo di lettura, in
base alla gravità, spesso può intaccare anche la comprensione del testo da
parte dello studente. Il mancato accesso al contenuto semantico del testo in
caso di dislessia, non è dovuto alla dislessia stessa, ma è un’effetto a cascata,
nel senso che una lettura particolarmente lenta e ferraginosa e la necessità di
concentrare la propria attenzione sull’attività di decodifica del testo fa in
modo che il soggetto impieghi più tempo a leggere e quindi porta ad un
sovraccarico della memoria di lavoro, inoltre assorbe le risorse attentive del
soggetto impedendogli di concentrarsi sul contenuto semantico del testo che sta
leggendo. In questi termini, spesso, la dislessia si accompagna ad un mancato
accesso della comprensione del testo. Questo mancato accesso è determinato
dall’effetto primario, cioè dall’effetto primario, cioè dall’intaccamento del meccanismo di matching
grafema fonema e non dalla dislessia stessa: impiego più tempo -> mi costa più
fatica-> non riesco a comprendere. Non perché il mancato accesso al
contenuto semantico del testo sia causato direttamente dalla dislessia. Ciò
significa che se si favorisce la rapidità e l’accuratezza della lettura,
automaticamente la fluenza di lettura si porta dietro una migliore comprensione
di quello che viene letto, quindi il soggetto diventa più autonomo. In mancanza
di ciò si hanno una serie ulteriore di problematiche, infatti è stato
dimostrato che la capacità e la fluenza di lettura nei primi anni, in
condizioni anche di normalità, va ad incidere sullo sviluppo dell’autostima del
bambino, nel senso che un bambino che vede gli altri che leggono bene e lui
legge più lentamente, anche in una condizione di normalità di sviluppo, incide
negativamente sulla sua autostima; in una condizione in cui è presente il
disturbo, e lo stesso non è identificato come tale e trattato adeguatamente,
questo finirà con l’incidere in modo certo sullo sviluppo dei sensi di
autostima e di autoefficacia del soggetto. Ciò porta ad una serie di ulteriori
problematiche: un soggetto con un disturbo del genere che si vede carente
rispetto ai suoi pari, perché legge più lentamente e non riesce a comprendere
perfettamente quello che legge, sarà portato non solo ad un rifiuto verso
l’ambiente scolastico, ma sarà portato anche ad avere una scarsa stima di sé,
ad essere aggressivo, e ad esporsi il meno possibile a situazioni di
valutazione o di rischio nel quale dovrà testare se stesso. L’esporsi il meno
possibile alle situazioni di valutazione lo porteranno a fare meno esperienza,
questo lo porterà ad avere ancora meno competenze e abilità nelle prove
valutative, o di lettura, o di gestione dei rapporti coi pari, etc, il che lo
porterà, a sua volta, ad esporsi sempre meno a queste situazioni, come una
sorta di circolo vizioso che finisce col determinare delle situazioni molto
problematiche e che pesa in modo gravoso sul soggetto, fino ad arrivare a delle
condizioni quasi di invalidità. Questo disturbo, più degli altri, non è una
patologia infatti non prevede il sostegno, ma, se non viene trattato
tempestivamente ed accuratamente, finisce con l’essere invalidante per il
soggetto. Ciò avviene soprattutto quando la dislessia si manifesta nelle sue
forme moderate o gravi.
Andando a definire ancora
di più il disturbo di lettura, esso è stato suddiviso in due grandi categorie
di disturbo:
- 1. Evolutiva,
che fa parte dei DSA, congenita, perché evolve insieme al soggetto, ad elementi
di natura biologica e culturale.
- 2. Acquisita,
che subentra in seguito ai danni cerebrali e patologie che possono portare al
manifestarsi di una difficoltà di fluenza di lettura. Non viene diagnosticata
come DSA perché non presente dalla nascita ma dovuta a patologia o incidente o
lesioni che hanno intaccato determinate aree cerebrali. La presa in carico è
dell’insegnante di sostegno e non di quello curricolare
Queste due tipologie di dislessia
possono essere:
- 1. Dislessia
di superficie: indichiamo una dislessia che è a carico della competenza
ortografica del soggetto, cioè legge male alcune parole, fa confusione tra parole
che si scrivono in un modo e si pronunciano in un altro.
- 2. Dislessia
fonologica: dovute ad un basso sviluppo delle competenze fonologiche a carico
del soggetto, che tende a commettere una serie di errori in fase di lettura,
confusione tra fonemi, inversioni sillabiche, etc
- 3. Dislessia
mista: mescola insieme queste due tipologie.
Normalmente si ha a che fare
sempre con la dislessia mista.
La dislessia può presentarsi con
profili diversi, quindi diverso grado di coinvolgimento delle capacità di
lettura del soggetto:
·
Lieve
·
Medio-lieve
·
Medio
·
Medio-grave
·
Grave
Quanto più il soggetto ha una
lettura poco fluente tanto più la dislessia è grave e quindi invalidante.