LEZIONE DEL 07 MARZO

Lez. Storia della scuola n 02 del 07/03/2017
Nel momento in cui ci riferiamo alla scuola come agenzia educativa privilegiata, dobbiamo astrarre un ragionamento che, in termini generali e introduttivi, ci faccia riflettere su quella che è l’educazione in senso più ampio.
Siamo abituati a ragionare sulle discipline in modo chiuso, ciò limita la nostra capacità di essere universitari, cioè a questo punto occorre rendersi conto che si percorre un tragitto di studi che ci mette in grado di essere universalmente preparati in determinati campi del sapere.
La visione dovrebbe essere costantemente reticolare.
Una ricognizione sull’atto educativo, sulla relazione educativa, sull’educazione in un contesto con i bambini è una riflessione che deve essere fatta e a livello teorico e a livello pratico: partire dal livello teorico per poi calarla nel campo di applicazione pratico che è quello scolastico.
Poiché siamo operatori del reale, le grandi teorizzazioni degli studiosi occidentali, tutto ciò che è riflessione filosofica sull’ambito educativo, deve essere messo in pratica e i maestri si devono porre il problema su come e quando mettere in pratica alcuni saperi che sembrerebbero tanti distanti dalla realtà.
C’è un filo rosso che lega grandi pensatori quali Socrate, Platone, Aristotele: la preoccupazione per l’educazione delle generazioni future; ognuno dei grandi pensatori del passato non si è mai esentato da una domanda profonda: come strutture il percorso e l’educazione delle generazioni future?
Anche prima di questi grandi filosofi, ogni racconto, ogni narrazione porta con sé una storia di avvicendamento generazionale che cela un germe di educazione. Ne “La Relazione Educativa” si cita l’Iliade come esempio di formazione, si citano gli scritti dell’età Arcaica.
In nessuna narrazione importante è assente il parametro di avvicendamento generazionale di impianto formativo di chi resta: chi non ci sarà consegna qualcosa a chi resta.
La storia è un percorso, qualcosa che ontologicamente contiene il concetto dell’avvicendamento generazionale. Se rifiuto la preoccupazione di formare le generazioni future, rifiuto il concetto stesso di storia, annichilisco la storia.
Peter Bichsel in Il lettore, il narrare dà una definizione multipla del semplice termine storia. Secondo Bichsel non esiste tracciato umano, narrazione di sensi, senza il concetto di storia e la storia, anche nella su accezione più popolare e semplice, è al centro di ogni percorso.
La storia dà senso al nostro esserci al mondo. C’è una storia che è quella che studiamo e che potremmo definire macro storia, della quale fa parte la storia della scuola, e poi c’è una miriade di microstorie che partecipano a questo flusso gigantesco, che intervengono in questo macro flusso condizionandone ogni micro aspetto rendendo tutti i protagonisti delle micro storie partecipi della macro storia che tutti investe e riguarda.
Bischel si rivela un autore brillante nell’esplicare perché siano importanti le micro storie.
Quando si conosce una persona interessante, si comincia una relazione, a livello lessicale si opta per una terminologia specifica: comincia una storia. Non è una terminologia scelta a caso. In tutto ciò che è la storia, la nostra storia quotidiana, si innesta una situazione imprevista che se non ci fosse stata quella persona non si sarebbe verificata, ecco che nasce un’altra storia.
E’ tanto più corretto chiamare storia una storia d’amore, d’amicizia, quanto più siamo capaci di individuarla come tracciato alternativo o complementare rispetto alla nostra storia abituale.
Diciamo che finisce una storia nel momento in cui quel tracciato si interrompe, si conclude una storia che è stata una storia tra milioni di altre storie e tra le centinaia di storie che mi riguardano (lavorativa, familiare …)
La storia è tanto più avvertibile quanto più muove l’interiorità dell’uomo. Chiamiamo storia la parte della nostra vita cui destiniamo più attenzione e intenzione emotiva.
Un altro esempio: una madre ad un bambino che fa capricci dice “non fare storie”, perché un bambino cerca sempre di creare un racconto alternativo ad una realtà che può essere noiosa, inaccettabile, stancante, fatta di rigore, dovere, punizioni e fugge in una narrazione in cui la sua flebile speranza si attacca alla possibilità remota di non avere sgridate, regole, punizioni.
Di fatto la madre interviene dicendogli di non fare storie, cioè di non creare percorsi alternativi rispetto a quella storia che dobbiamo rispettare insieme.
Il genitore smette di chiedere al bambino di non fare storie, ma è felice se il bambino fa storie dopo che è riuscito a fargli rispettare il canale principale della storia cui riferirsi con maggiore attenzione.
Dunque questo termine inflazionato STORIA ci porta ad una molteplicità di riflessioni.
Ritorniamo al nostro macro percorso storico.
Nessuno dei grandi pensatori, di tutti coloro che appartengono alla grandissima tradizione del pensiero occidentale, si è mai potuto tirare indietro rispetto ad una riflessione riferita all’ambito educativo, proprio perché hanno avuto, in quanto giganti dell’intelletto, un riferimento potente alla storia.
Chi pensa di appartenere alla storia sa che la storia è l’avvicendamento delle generazioni, quindi se appartieni alla storia ti dovrai prendere cura di coloro a cui la lascerai.
La modalità educativa socratica, la maieutica socratica è qualcosa che se cade dal bagaglio pedagogico del maestro ne elimina la possibilità stessa di essere maestro.
Dobbiamo fare storia di ciò che si verifica nella scuola ma non semplicemente una successione di date e leggi. Non possono interessarci solo le nozioni; per comprendere la storia e l’evoluzione dell’agenzia educativa principale che è la scuola per i bambini, dobbiamo partire dal concetto stesso di educazione e dall’evoluzione di quel concetto.
Che cos’era l’educazione nell’Età Classica?
Per la prima volta, in una fase in cui la civiltà occidentale è stata grande, vi è testimonianza di voler capire come relazionarsi con le generazioni successive: i discepoli, gli allievi, il ragazzo prima di andare in guerra.
L’età classica ci dà alcune profondissime riflessioni su questo rapporto e l’apporto più determinante è quello di Socrate, potenziato dall’interpretazione del suo più grande successore che è Platone e che ne coglie, a livello di eredità concettuale generica, il testimone in chiave dialogica.
Tutto ciò che è dialogo in Platone gli deriva dalla grande intuizione socratica che è quella di porre al centro della conoscenza il carattere dialogico della relazione della verità e non quello asimmetrico in ambito di ricezione e trasmissione.
La grande rivoluzione è la scoperta del dialogo, della crisi delle certezze e soprattutto della ricerca della verità.
L’intuizione socratica ci rivela la maieutica quale ricerca della verità.
Pensare alla maieutica semplicemente come al tirar fuori è limitante del concetto stesso; la maieutica è anzitutto la ricerca della verità attraverso una reiterata e continua messa in crisi della presunta verità raggiunta, attraverso la possibilità di tirar fuori ancora una risposta; tutto ciò viene sintetizzato nel “tirar fuori”, ma si tratta di una semplificazione.
Il maestro si pone come colui che non è depositario della verità, ma colui che, avendo un grado di conoscenza superiore, può mettere in crisi tutte le presunte verità cui si giunge mediante una semplice trasmissione di saperi.
Il maestro è colui che non si ferma neanche difronte alla possibilità che la ricerca della verità oltrepassi la propria conoscenza, ovvero il maestro è disposto ad essere confutato. Questa è la grande novità: non è depositario della verità assoluta ma è colui che, trovandosi in una posizione di maggiore consapevolezza rispetto all’argomento, stimola e aiuta, continuamente mette in crisi le presunte verità cui si giunge insieme attraverso il dialogo, tira fuori tutto ciò che ritiene possa ancora albergare in una ricerca di verità più approfondita e addirittura si arrende al concetto di poter essere depositario di quella verità.
Di tutto ciò è esempio un brano antologico sul libro di Mari (La Relazione Educativa), in cui Platone scrive di un dialogo che avviene tra Socrate e Lachete, un grande generale.
Il dialogo di Platone è sorprendente, perché ognuno ci trova qualche verità e testimonianza della ricerca della verità, che diventa uno dei blocchi granitici che si trovano a fondamento dell’edificio pedagogico educativo della nostra cultura.
Alla base del concetto dell’educazione c’è la ricerca della verità che è qualcosa da cui un maestro non può esimersi.
La domanda su cui esercitano il loro esercizio di riflessione Socrate e i suoi interlocutori, cercando di definire una delle prerogative più elevate dello spirito dell’uomo, è sulla virtù, collocando all’interno di questo concetto alcune prerogative connaturate ad essa e dalle quali non si può prescindere.
Quali prerogative deve avere un uomo che noi chiamiamo virtuoso?
Un uomo ha virtù quando è generoso, ma può essere un uomo ad esempio generoso e pavido, quindi non virtuoso.
Avendo di fronte il generale, Socrate arriva alla consapevolezza che il concetto di virtù non può essere scisso dal concetto di coraggio, perché il coraggio è una di quelle grandi qualità dell’animo che si esercita in ogni ambito della vita.
Cerca di definire il coraggio: se sappiamo con certezza che un uomo che ha virtù è un uomo che sicuramente deve avere almeno coraggio, cerchiamo di capire cos’è il coraggio. Socrate lancia questa provocazione, che di fatto si attesta come una sorta di esperienza educativa, ovvero impariamo insieme cosa sia il coraggio, ma non perché io (Socrate) sia capace di insegnarlo, ma perché sono sicuro di essere capace di cercare la verità su cosa sia il coraggio.
Cerchiamo di trovare una verità che sia soddisfacente per ognuna delle caratteristiche che riteniamo essere valide per definire il coraggio, perché se soltanto una delle caratteristiche non viene rispettata dalle definizioni che arriveremo a dare insieme, vorrà dire che quella definizione non è vera e sarà una di quelle verità fallaci oltre le quali la ricerca maieutica della verità deve orientarsi.
La prima definizione viene spontanea quando noi abbiamo una parte di verità e la diciamo subito.
Quando un soldato resta al suo posto, combatte contro i nemici e non arretra, ecco quest’uomo è coraggioso.
            Lettura Brano Pag. 39 Relazione Educativa
“Hai ragione … la colpa è mia se per non essermi spiegato chiaramente hai risposto non a ciò che pensavo ma ad altro”
Questa parte dell’affermazione di Socrate dovrebbe far scuola per quanti vogliono fare i maestri; Socrate ha un intercalare, dice sempre “è colpa mia”, cerca di far scaturire qualcosa dall’interlocutore ma vi è la totale e costante assenza di prevaricazione verbale nella maieutica della conoscenza, non c’è mai un momento in cui Socrate dice “ascoltate perché lo so io”.
Continuazione lettura
Socrate interviene allargando lo spettro del ragionamento; per il generale, che ha una visione ridotta della propria storia, il coraggio è quello del soldato che resiste, combatte e magari soccombe. Socrate incrina pian piano questa verità parziale, perché non è che quel soldato non sia coraggioso, ma non è quello il coraggio.
“il coraggio non è solo per i fanti…”
Socrate mette in crisi la definizione di coraggio di Lachete, spazia attraverso tutte le definizioni e quando le mette in campo tutte in modo che vanno a scontrarsi tra di loro, fa capire a Lachete che quelle definizioni non sono vere.
Dire che la forza dell’animo è bella quando è unita all’intelligenza, perché altrimenti potrebbe essere anche forza bruta, violenza, taglia via dalle definizioni di coraggio tutta una serie di attività che più che coraggiose potremmo definire stolte.
E mette in crisi il concetto nel momento in cui entra nel campo d’azione del generale, quando dice è più coraggioso quello che sprovvisto di arte cavalleresca sta tuffandosi in battaglia.
Per Socrate non è così, il coraggio è una virtù bella, quindi va di pari passo con la valutazione ponderata e intelligente delle situazioni.
Vuole scardinare dal vecchio generale quell’incrostazione concettuale che fa corrispondere coraggio a rischio, per cui più c’è rischio, più c’è pericolo di morte più c’è coraggio.
L’altra cosa che ci porta a riflettere su quanto sia bella questa pagina scritta da Platone (ricordiamo che il racconto del dialogo tra Socrate e Lachete è stato scritto da Platone) è la domanda che lascia inevasa Socrate: “ti pare che abbiamo ragionato bene?”.
Il grande generale sbotta, ma tuttavia Socrate convince l’ormai nervoso generale a continuare.
Quindi continuano il ragionamento e a loro si unisce un altro generale che allarga lo spettro delle possibilità.
L’altro caso per cui è importante questo brano antologico è che la definizione esaustiva è ancora una ricerca, che per quanto siamo stati bravi a compiere non ha trovato una risposta definitiva, a testimonianza di quanto la maieutica sia la ricerca della verità che prescinde dal ruolo del maestro, che non è depositario della verità ma è la guida della ricerca della verità.
Il discorso è lasciato in sospeso.
Questi argomenti aprono una riflessione.
Ci si chiede quanto sia possibile applicare questo metodo realmente in classe. Socrate non fa un’interrogazione al generale, ma vuole da questi essere convinto, quando non è convinto pone un’obiezione. L’alunno sa invece che l’insegnante sa una verità, a meno che non si utilizzi la metodologia dialogica come supporto alla spiegazione dei concetti, cioè non in fase di verifica del sapere. In fase di verifica è difficile proporre l’atto maieutico, perché il maestro quando fa il verificato e il valutatore deve essere asettico e registrare dei dati. Tuttavia anche in quel campo il maestro che diventa interprete del soggetto è il maestro che ne riconosce alcune difficoltà che prescindono dall’impreparazione.
In ciò l’insegnante delle elementari è diverso dall’insegnante delle altre scuole, perché in riferimento ad un bambino ci sono molte più interpretazioni di quella che può essere un’assenza di risposta, quali una incapacità relazionale, allora il maestro più di tanti insegnanti deve essere in grado di capire cosa si nasconde dietro ad un silenzio. Un bambino che non risponde solo in ultima analisi è un bambino che non sa. Tutti gli step precedenti sono a carico del maestro e dunque maieuticamente occorre ricercare tutte quelle chiavi di lettura di quella non risposta per capire come indurre il soggetto ad arrivare alla risposta che forse se non è completa ha.
La maieutica è utilizzabile nell’atto della spiegazione, del racconto, di ciò che si va a partecipare al bambino in una classe. E’ utile per arrivare alla consapevolezza di un dato, portare ad esso e non trasferirlo dalla nostra consapevolezza a quella che speriamo divenga la nuova ospite di quel dato, che come recipiente non regge, ma come soggetto coinvolto viene chiamato in causa.
Quando si tratta di bambini delle primari, la disattenzione in classe non è colpa del bambino; il maestro entra in tutte le pieghe delle differenze, vi entra con una domanda perché capisce che sta perdendo il polso della classe, allora deve coinvolgere ed impattare sul gruppo dei non attenti forzandoli a stare nella spiegazione con la loro ricerca della verità rispetto a quanto sta spiegando.
La pratica della condivisione dell’acquisizione del sapere è l’unica possibile nella scuola primaria e dell’infanzia, ancor di più rispetto alle altre scuole. Il maestro è chi è capace di trovare la domanda che gli dia aiuto rispetto all’argomento noioso che sta spiegando e in base a quella domanda sia capace di non far scaturire una bagarre in classe, ma di indirizzare la natura di protagonista dei bambini in vista dell’obiettivo da raggiungere, ovvero della conoscenza del dato. E’ colui che riesce a calibrare i dati che sa che la maggior parte della classe ha recepito e la possibilità di chiedere in base a quei dati la partecipazione della classe mediante altre domande.
Questo vale soprattutto per la matematica che è la prima astrazione rifiutata dai bambini se non riescono a contestualizzarla, a dimostrazione di ciò il fatto che sono soprattutto i bambini iperattivi a rifiutarla.

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